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Il Blog del WWF Friuli Venezia Giulia

domenica 6 febbraio 2011

La perdita traumatica del senso dei luoghi: relazione tra patologie depressive e perdita della qualità del paesaggio







Ecco il testo della conferenza tenuta dal prof. Francesco Vallerani nella sede del WWF Trieste il 1° febbraio 2010


Francesco Vallerani (1954). Professore di Geografia presso l’Università di Venezia Cà Foscari, ha compiuto i suoi studi presso il Dipartimento di Geografia dell’Università di Padova. Dopo aver conseguito il Dottorato di Ricerca all’Università di Pavia ha insegnato a Padova, Feltre e Milano. La sua ricerca più recente considera non solo le relazioni tra il declino dei paesaggi e l’angoscia sociale, ma anche le strategie di recupero ambientale.

Abstract

Il saggio considera le strette relazioni tra l’emergenza dei problemi ambientali e la crescente diffusione di disagio e angoscia tra gli abitanti che vivono in territori minacciati. La tematica si colloca all’interno del più generale dibattito sulla qualità della vita, per cui anche un paesaggio degradato nelle sue peculiarità ecologiche e morfologiche può causare pesanti influenze alla serenità esistenziale non solo degli abitanti che vivono all’interno di quel paesaggio, ma anche tra i turisti e i visitatori occasionali. Lo studio  prende lo spunto dalla recente e pesante urbanizzazione della pianura veneta, tra le regioni più ricche al mondo di complessità geomorfologica e storico-culturale, in cui settori sempre più consistenti tra i suoi abitanti stanno vivendo la rapida trasformazione territoriale con un forte senso di disagio e angoscia. L’approccio teorico utilizzato è quello della geografia umanistica, molto sensibile all’analisi degli elementi emozionali che governano il ruolo della soggettività nella costruzione del rapporto con il territorio.  Un certo rilievo viene dato anche al senso di pessimismo che sta affliggendo in tutto il mondo occidentale le società opulente. Causa rilevante di questo pessimismo è il degrado ambientale che viene percepito sia a livello locale che globale, grazie all’abbondanza di informazioni mediatiche. Il pessimismo cresce con l’aumentare della sensibilità ambientalista, generando preoccupazioni e paure per la sorte sia della qualità del vivere quotidiano che delle nuove generazioni. Si può allora parlare di “geografie della paura”, cioè di una ben distribuita ansia sociale che può causare stati depressivi e perdita dei rassicuranti legami identitari con i luoghi. Particolare attenzione viene dedicata al sorgere di associazioni di cittadini che cercano di fare pressione presso i responsabili politici per una adeguata soluzione delle criticità ambientali. Si tratta dei comitati ambientalisti al cui interno è possibile attivare non solo crescita di senso civico per uscire dall’individualismo, ma anche terapia di gruppo per difendersi dalla negatività della depressione.
Ogni gruppo umano ha stretti rapporti affettivi con i propri luoghi. La recente omologazione urbanistica sta dimostrando che i paesaggi non possono più essere amati, ma vanno invece utilizzati, trasformati in merce per le speculazioni immobiliari, per l’espansione industriale e per le grandi infrastrutture che servono ai flussi globali. L’inquinamento di aria e acqua, il dissesto idrogeologico, gli incendi estivi, l’edilizia selvaggia in ambienti di pregio, l’aumento di morti per incidenti stradali sono alcuni aspetti che aumentano il senso di rischio e l’infelicità tra gli abitanti delle geografie postmoderne. Per cogliere questo senso di disagio sono opportuni percorsi di ricerca congiunti tra scienze del territorio e scienze della mente, in particolare per cogliere il dilagare dei conflitti ambientali tra diversi portatori di interesse. Le condizioni di depressione derivano dall’accumularsi di sensazioni negative che determinano un susseguirsi di pensieri negativi che escludono ogni spunto di positività. L’ansia catastrofista è però una sorta di autodifesa inconscia, un allarme preventivo che aiuta a prevedere ulteriori attacchi alla sensibilità di chi vive in luoghi a rischio. Quando i luoghi subiscono lesioni, è la comunità degli abitanti che vede alterato il suo rapporto identitario con il paesaggio e così il “trauma geografico” si trasforma in “trauma psicologico”.
Non tutti gli stati di paura e disagio per le sorti del paesaggio si trasformano comunque in chiare patologie depressive; questi sono i casi più estremi. Molto più diffuso, e non meno preoccupante, e il dilagante pessimismo e l’infelicità, rilevabile tra le migliaia di persone che compongono i comitati ambientalisti. Dal lavoro sul campo emerge comunque l’importante funzione di consapevolezza civica svolta da quei gruppi, ai quali si deve inoltre una incoraggiante partecipazione popolare al destino dei beni comuni.

E’ bene informare i lettori che questo saggio non è solo espressione di un prolungato impegno nella ricerca geografica dedicata alla complessa evoluzione dei paesaggi postindustriali, ma costituisce anche un significativo esempio di ciò che si è soliti definire “osservazione partecipata”, in cui l’analisi scientifica interagisce con i sentimenti, le emozioni e la specifica esperienza vissuta dello studioso. L’approccio teorico e il lavoro sul campo non si limitano pertanto alla semplice narrazione oggettiva dei fatti, ma si intersecano con un fitto sovrapporsi di sensazioni che ho potuto valutare come “reazioni negative” rispetto al progredire dell’analisi dei nuovi paesaggi che si stanno affermando non solo nello specifico ambito della mia territorialità quotidiana, ma nei ben più ampi scenari dell’attuale urbanizzazione occidentale. In questo contesto l’obiettivo del geografo diventa la comprensione dei problemi territoriali attraverso il contatto diretto con gli eventi. Le realtà geografiche possono conoscersi solo dall’interno tramite una conoscenza empatetica. Il ricercatore deve “mettersi dentro e considerarsi dentro ciò che studia” (Capel, 1987, p.257), utilizzando le interviste agli abitanti dell’area studiata, cercando di divenire parte delle loro vite e di stabilire con loro un autentico legame, non solo come studioso, ma come individuo umano.
L’ambito geografico entro cui ho potuto elaborare le mie riflessioni è la pianura del Veneto centrale, ovvero la terraferma di Venezia, regione culturale tra le più ricche al mondo di segni storici che, a partire dall’epoca paleoveneta, ci ha restituito pregevoli resti monumentali di età romana, un fitto sistema di abbazie, castelli e centri abitati circondati da mura medievali ben conservate, una pregiata rete urbana di città stato e villaggi storici minori, ville di campagna, paesaggi agrari tradizionali, antichi sistemi idraulici ancora funzionanti, manufatti di archeologia industriale, il tutto all’interno di un contesto geomorfologico molto vario, che va dalle Dolomiti alle lagune della costa adriatica (Cosgrove, 1993). Di ciò che è avvenuto e sta avvenendo in Veneto darò conto solo in pochi accenni, cercando invece di ricavare riflessioni generali in modo da rendere esplicito il senso di disagio e angoscia che prova una comunità sottoposta al rapido degrado del proprio spazio vissuto.

Una società  pessimista?

Per meglio comprendere la complessa evoluzione delle relazioni tra i territori della globalizzazione e le odierne società opulente che vi agiscono, è opportuno affidarsi alle riflessioni teoriche della geografia umanistica. Il geografo umanista non cerca il conforto dei dati quantitativi, riducendo così le persone a numeri di una statistica da trasferire poi su una fredda carta tematica: quello che secondo lui dovrebbe essere invece l’oggetto dell’indagine geografica è proprio il ruolo della soggettività nella costruzione del rapporto col Territorio. Si tratta di recuperare gli spazi di ambiguità e di polisemia, avviando la considerazione di “oggetti sociali” importanti come i valori e le norme condivise, le tradizioni culturali, le reazioni affettive. Ne consegue che ogni organizzazione territoriale interagisce con una complessa rete di elementi emozionali che possono variare dalla gioiosa espressività della soddisfazione residenziale, o “topofilia” (Tuan, 1974), alle più oscure e pessimistiche reazioni negative di fronte al degrado ecologico e sociale dei quadri ambientali, identificate con il termine “topofobie” (Tuan, 1979; Davis, 1999).
Non occorre essere attenti sociologi per cogliere il senso di pessimismo condiviso che connota ampi settori di percezioni sociali rilevabili nel mondo occidentale a partire dal nuovo millennio. E’ sufficiente, in modo rapido ed empirico, sfogliare la stampa quotidiana o assistere ai notiziari televisivi, per cogliere numerose tipologie di eventi negativi che non possono non condizionare la sensibilità della gente comune. Questo resta comunque il livello spettacolare e superficiale di una sorta di consumismo della catastrofe, siano essi gli incendi estivi, gli attentati terroristici, gli uragani caraibici, i naufragi di petroliere, i puntuali eventi di cronaca nera che turbano i sonni dei borghesi opulenti nelle loro case-bunker isolate. Sono storie di ordinario disagio che nutrono più complesse riflessioni legate all’emergere di un pessimismo consapevole e radicato, alla cui analisi è bene dedicarsi per distinguere con attenzione la consueta e ricorrente estetica dell’apocalisse dalle oggettive angosce e paure connesse ad esempio al problemo energetico, all’avvelenamento di aria e acqua, al cambio climatico.
La grande varietà di motivazioni specifiche, sia individuali che collettive, dalle quali deriva una spiccata attitudine al pessimismo (e a cui accenneremo tra breve) si susseguono in una sorta di tessuto connettivo governato dai misteriosi programmi attivati da ciò che Serge Latouche definisce “megamacchina mondiale” (Latouche, 1995). E’ lo spazio virtuale del  turbocapitalismo globale che determina il crollo delle consuete geografie relazionali, enfatizzando il senso di insicurezza di fronte ai cambiamenti del mondo e alla perdita del legame con i luoghi che diventano impersonali e irriconoscibili (La Cecla, 1998). I casi dell’urbanizzazione intensa delle campagne suburbane, la loro trasformazione fisionomica a seguito delle decisioni dell’agribusiness globale, la realizzazione di mega strutture per la viabilità e per la produzione di energia, il problema dei rifiuti, l’espansione dell’edilizia turistica nei territori più ameni, sono trasformazioni molto diffuse in tutti i paesi europei e offrono numerose tipologie di disagi per la perdita dei rassicuranti punti di riferimento nelle geografie quotidiane di ampi settori di popolazione, annullando i legami esistenziali con lo spazio vissuto e le radici culturali e affettive che affondano nei luoghi (Bonesio, 2000). Ciò determina la perdita di senso e di appartenenza alla dimensione sentimentale trasmessa dal paesaggio e impoverisce anche la socialità condivisa, lasciando un vuoto che sarà facilmente riempito dalle “amicizie” elettroniche e televisive fornite dal mercato hitech globale. Sono questi i tempi della “modernità liquida” (Bauman, 2002), in cui le forme sociali e i luoghi del vissuto fluiscono rapidamente e lasciano privi di strumenti certi per interpretare le nuove realtà. Non resta che ripiegarsi nelle dimensioni chiuse e ristrette della razionalità individuale, sacrificando i legami interumani a vantaggio di atteggiamenti competitivi e aggressivi (Bauman, 2007).
E’ evidente che questo sfondo di profondi e rapidi mutamenti sociali e territoriali offre buoni motivi per una grande varietà di narrazioni di decadenza in grado di esprimere un comune e diffuso senso di pessimismo che sta affliggendo i primi anni del nuovo millennio. A questa affermazione verrebbe da contrapporre il fatto che la storia dell’umanità è accompagnata in ogni sua epoca da narrazioni di decadenza con sfumature particolarmente pessimistiche per quanto riguarda il modo di vivere complessivo dell’uomo. Si tratta forse della consueta evocazione dei mala tempora in cui si vive rispetto a un passato mitizzato e trasfigurato nella ben nota “età dell’oro”? Probabilmente ci sono delle assonanze con questa ricorrente insoddisfazione per il presente. Ma è un’analisi un po’ troppo sbrigativa e superficiale che trascura le obiettive criticità che connotano le condizioni esistenziali del nuovo millennio (Bennet, 2001). E tale fretta nel liquidare le ansie postmoderne è ancora più colpevole quando si considerano il degrado ecologico, la cancellazione dei paesaggi storici, il cambio climatico, producendo una controcultura negazionista di cui Michael Crichton e Bjorn Lomborg sono solo i portavoce più noti (Crichton, 2004; Lomborg, 2001).
La decadenza ambientale attuale presenta caratteri molto più complessi ed estesi rispetto allo “sporco” industrialismo ottocentesco, poiché si interseca non solo con situazioni geopolitiche e macroeconomiche di dimensioni globali, ma soprattutto con modalità produttive invasive e ad elevato costo energetico, favorite dallo straordinario incremento demografico. Inquinamento di aria e acqua (sia di mare che nei fiumi e nei laghi), diffusione della chimica di sintesi in agricoltura, riduzione della biodiversità, perdita della bellezza dei paesaggi e tanti altri aspetti critici della convivenza tra uomo e ambiente stanno mettendo a dura prova la riproducibilità ecologica in ampi settori del pianeta (Worldwatch Institute, 2006).  Ecco che nelle odierne attitudini pessimistiche un ruolo dominante è giocato dal degrado ambientale, i cui dati oggettivi sono tanto più influenti quanto maggiore è il livello di sensibilità ambientalista e a tale riguardo mai come in questi anni si può definire elevato il tasso di interesse popolare per la vulnerabilità dell’ambiente (atmosfera, idrosfera e biodiversità). Ma ci si preoccupa anche per la qualità dei cibi e per le infinite situazioni di degrado locale che alterano più o meno intensamente la qualità della vita, nutrendo così il pessimismo sociale con obiettive condizioni di rischio (Beck, 2000).   


Geografie della paura

Sono trascorsi quasi tre decenni da quando Y-Fu Tuan ha posto in evidenza le strette relazioni tra paesaggi e paura (Tuan, 1979). La riflessione è tutt’oggi ancora di grande attualità, con particolare riguardo alla diffusa crisi ecologica, anche nel caso di eventi lontani, che non ci colpiscono direttamente. Il meccanismo della paura è una strategia ancestrale a disposizione delle specie animali evolute, tra cui l’uomo, per garantire la sopravvivenza. È un’emozione che segnala la presenza del pericolo e innesca una reazione corporea di fronte a una minaccia reale, o percepita come tale, di tipo fisico o emotivo. È un modo, insomma, di farci capire che siamo vivi e ci stiamo addentrando nell’ignoto. Allarme e ansia ne sono le componenti principali: l’allarme proviene da qualcosa di inaspettato che accade nell’ambiente circostante e l’istinto che ne consegue è di fuggire o combattere l’imprevisto. L’ansia, invece, è una sensazione con la quale si contrasta la paura giocando d’anticipo rispetto ad eventi futuri, plausibili o solo immaginati, percepiti come potenzialmente pericolosi.
Volendo privilegiare le relazioni tra gruppi umani  e ambiente, situazioni di paura emergono a seguito di tensioni emotive individuali e condivise che rafforzano  la sorveglianza dello spazio vissuto nel momento in cui quest’ultimo ci appare minacciato, instabile o sconosciuto, e ci sembra di perderne il controllo. Per la costruzione di una soddisfacente territorialità umana è pertanto essenziale aver fiducia nell’affidabilità dello spazio in cui viviamo. Tale affidabilità è assicurata da vari fattori, così come ci suggeriscono i moderni studi geoculturali: i legami sociali ed emotivi, innanzi tutto, segni di aggregazione e associazione comunitaria che individuano il concetto di radicamento territoriale, oggi riconosciuto fondamentale per lo sviluppo di una relazione armonica tra lo spazio vissuto e i gruppi umani (Relph, 1976).
Sempre in relazione all’odierna divulgazione popolare delle minacce all’ambiente, è agevole osservare un progressivo superamento della tradizionale paura “della” natura, con particolare riguardo alle manifestazioni estreme di uragani, alluvioni, siccità, frane, valanghe, terremoti e tsunami, a vantaggio di una condivisa angoscia e preoccupazioni per le sorti degli equilibri ecologici: sta cioè crescendo la paura “per” la natura. Prova evidente di questa mutata attitudine è la critica generale alla definizione di “calamità naturale”, ove la naturalità dell’evento viene ridimensionata rispetto a presunte responsabilità umane, come nel caso del dibattito politico e scientifico successivo agli effetti distruttivi dell’uragano Katrina nel sud degli Stati Uniti. E così si devono al cattivo uso dei suoli le devastazioni delle frane e a errate scelte agronomiche le ricorrenti emergenze per la siccità (Leone, 2006).
I protagonisti di una più allarmata sensibilità circa la vulnerabilità della natura sia a livello globale che locale appartengono in genere agli strati sociali che vivono in ambiti di elevata urbanizzazione, in cui è più forte la domanda di spazi verdi, in cui sono più urgenti i problemi del traffico, dell’inquinamento, dello smaltimento dei rifiuti. Questa elementare constatazione va integrata con il fatto che la tradizionale “cronotopia” della paura  (più fisicamente lontano è un evento nefasto, o più è trascorso del tempo dal suo avvenire, più lieve è l’ansia che ci procura) è alterata dall’odierna compressione spazio-tempo che moltiplica la disponibilità delle informazioni, anche le più sgradevoli. Pensiamo, ad esempio, a quanto sia semplice che un evento catastrofico accaduto in India o in Honduras venga subito trasmesso in televisione o rappresentato con dovizia di particolari su internet. Lo spazio implode in questo modo nelle nostre case, acuisce la nitidezza e consapevolezza delle nostre percezioni ambientali e incide negativamente sulle nostre ansie, proiettando le nostre esistenze quotidiane nell’ottica globale di scenari futuri incerti non solo per noi abitanti di oggi, ma anche per i nostri figli e per le popolazioni successive che verranno (Leslie, 1996; Beck, 2000).
Un secondo punto relativo a questo rinnovato rapporto spazio/tempo consiste nel misurare la paura per l’ambiente nei termini di una problematica del “qui ed ora” (ho paura dell’inceneritore vicino a dove abito, o della fabbrica che rilascia rifiuti tossici a pochi chilometri di distanza), a tal punto da generare allarme e ansia condivisa per il proprio spazio vissuto. Il disagio esistenziale scaturisce non solo per specifiche minacce alla qualità ecologica delle geografie locali, ma anche alla conservazione dei paesaggi ricchi di storia e di pregiate sedimentazioni culturali che costituiscono la “personalità” dei luoghi. Se fino a un recente passato le azioni di protesta e il dibattito politico erano condotte da associazioni a livello nazionale (nel caso italiano si pensi a Italia Nostra, a Legambiente e al Fondo per l’Ambiente Italiano) e internazionale (WWF, Green Peace), oggi è sempre più diffuso un coinvolgimento diretto di gruppi e movimenti di cittadini legati dalla paura per le minacce ambientali che organizzano iniziative civiche. Paure, disagi esistenziali, perdita di serenità e depressione sono i principali moventi che spingono persone tranquille e in gran parte paghe del loro individualismo a occuparsi di qualcosa che sta al di fuori della spazialità domestica. I protagonisti della politica e dell’imprenditoria locale sono soliti definire questo attivismo d’occasione come NIMBY (Not in My Back Yard), senza nascondere un certo disprezzo per ciò che definiscono “ambientalismo estremista” che si oppone al progresso.
In realtà lo sfondo culturale in cui si elabora questa riflessione è quello dei conflitti ambientali, del recupero dell’identità locale come dato irrinunciabile per la qualità della vita, della pianificazione condivisa di una territorialità più rispettosa della base ambientale. La sindrome da Nimby  prolifera di pari passo con i comitati di cittadini, e i comitati si diffondono dove la “società locale” è carente, frammentata in microcosmi iperindividuali, accomunati solo dalla pur legittima aspirazione al benessere materiale e dalla quasi totale assenza di spirito solidale. Solo una matura “società locale” è in grado di avere cura del suo territorio, visto non solo come supporto per una adeguata e armoniosa riproduzione economica, ma anche come sostegno al senso e al piacere dell’abitare. Altrimenti gli abitanti sono espropriati di ogni capacità decisionale e quindi destinati a subire scelte territoriali incerte, discutibili, che producono impatti negativi (Magnaghi, 2000).
E’ troppo facile liquidare con superficialità i disagi sociali causati dal degrado ambientale definendoli con la sigla NIMBY, trascurando anche il sentimento dell’indignazione e quindi negando l’ascolto delle voci dei molti che subiscono scelte territoriali approvate per il vantaggio di pochi, come nel caso di speculazioni immobiliari in aree di pregio paesaggistico, l’apertura di cave in contesti idrogeologici delicati, il prelievo di acqua di falda per poi venderla imbottigliata ad alto prezzo. A questo proposito lo sprawl urbano in Veneto ha prodotto un’area emblematica, dove lo straordinario successo del modello economico, che ha trasformato in pochi decenni una regione di poveri emigranti in uno tra i più opulenti territori del pianeta,  non è riuscito a fondersi armoniosamente con i pregiati caratteri del paesaggio storico, e in particolare l’eredità palladiana (Vallerani, 2000; Vallerani, Varotto, 2005). Proprio per questa frattura crescente tra scelte politiche e cittadini, il Veneto è certamente tra le regioni italiane con il maggior numero di comitati emergenziali (Zamparutti, 2000).
La proliferazione dei comitati oltre ad aggregare i disagi e le angosce condivise, facendo da portavoce presso le istituzioni di un senso di malessere che rende infelici ampie porzioni di popolazione, ha anche una discreta funzione terapeutica di gruppo. All’interno del comitato si conosce gente nuova, si trova condivisione e ascolto per gli sfoghi individuali altrimenti repressi nel senso di impotenza che deprime se si resta entro le mura di casa. Si fa rete, cercando collegamenti con altri comitati, coordinandosi per attivare azioni comuni (Mutuo Soccorso; Italia Maltrattata). Cresce la consapevolezza che alimenta un più maturo e profondo impegno civile, per cui non preoccupa più solamente la minaccia al proprio “cortile”, ma si guarda con simpatia e interesse anche ai “cortili” degli altri, recuperando il senso del bene comune disperso in questi ultimi anni di corsa sfrenata al successo individuale. Sentire la propria appartenenza ad un luogo e ad una comunità ed interessarsi alla loro salvaguardia può tradursi nella consapevolezza di essere parte delle Cose Viventi. La cooperazione ambientale diventa così una importante opportunità per estendere la costruzione di una comunità che superi le polarizzazioni e le limitazioni imposte da rapporti economici, commerciali e finanziari in favore di un più ampio senso di solidarietà ecologica (Commoner, 1975).     

Paesaggi, valore affettivo, radici

L’odierno definirsi dello spazio vissuto è caratterizzato da una diffusa indifferenza nei confronti dei luoghi, dal momento che le principali azioni della quotidianità possono svolgersi tranquillamente qui come altrove. Anche i rapporti interpersonali non hanno più bisogno di uno spazio fisico, ma sono favorite da reti informatiche e telefoniche che trascurano qualunque determinismo geografico. L’uniformità insediativa, infrastrutturale e dei flussi facilita l’adattamento ai nuovi posti dove vivere e lavorare; lo stesso vale per i luoghi del divertimento e del turismo (La Cecla, 2000). C’è insomma sempre meno tempo  e sensibilità per affezionarsi ai luoghi, i quali non devono essere amati, ma utilizzati, sfruttati per ottenere la massima redditività. E’ a queste geografie omologate che dedicano l’impegno di ricerca gli accademici e i pianificatori, per poi trasmettere i risultati delle loro analisi non solo ai responsabili politici, ma anche alle associazioni di investitori, dall’edilizia al commercio, dalle industrie ai siti turistici. Gran parte degli economisti e degli urbanisti sono però ancora ossequiosi di fronte a parole d’ordine come sviluppo, crescita, competitività, profitto. Non è facile affezionarsi ai luoghi in un contesto di così dominante razionalità incrementale. O meglio: può essere doloroso affezionarsi ai luoghi, credere nella bellezza del paesaggio, affidarsi al potere rigenerante di uno scenario.
Lo scrittore inglese Tim Parks, che ha vissuto a lungo nella campagna veneta vicino a Verona, è ben consapevole che l’assenza di sicure e rispettate norme di protezione ambientale lasciano indifesi gran parte dei luoghi, non solo quelli definibili come ordinary landscapes, ma le stesse eccellenze paesaggistiche ufficialmente incluse nelle liste di tutela (Parks, 1995). E qui ritorno a menzionare il Veneto, con l’infinita varietà dei suoi scenari, quasi un’arcadia diffusa, il cui degrado ecologico e formale a partire dalla fine degli anni ’50 è stato raccontato in una tutt’altro che trascurabile “letteratura del disagio”, in cui possiamo incontrare nomi importanti della narrativa e della poesia italiana del XX secolo, tra cui Guido Piovene, Pier Paolo Pasolini, Goffredo Parise, Andrea Zanzotto (Vallerani, 2005). I testi letterari sono davvero efficaci nell’esprimere il rapporto tra disagio esistenziale e perdita del senso dei luoghi. Si tratta di letture che ci consegnano visioni geopoetiche di rara efficacia per andare al di là delle certezze dei discorsi formalizzati di urbanisti e pianificatori. In alcune scritture di autori più giovani, come ad esempio Vitaliano Trevisan, si notano livelli di angoscia più intensi (Trevisan, 2002), molto vicini ai toni disperati ed estremi che si possono cogliere tra i protagonisti dei conflitti ambientali più aspri, come nel caso del comitato/presidio a San Pietro di Rosà in territorio di Vicenza, nel bel mezzo del paesaggio palladiano, dove un gruppo di paesani si oppone senza speranza alla localizzazione di un imponente e pericoloso impianto industriale.
La parola “paesaggio” sta vivendo un significativo rinnovamento grazie anche alla stipula della recente convenzione europea, in cui finalmente si sottolinea la dimensione affettiva e sentimentale degli scenari in cui agiscono i gruppi sociali, fondamentale per l’acquisizione della tanto decantata “qualità della vita”. In questo stesso periodo si intensifica l’attività delle associazioni per la tutela del paesaggio, avvalendosi non più solo del linguaggio tecnico degli architetti o dei tecnici della conservazione dei beni storico-artistici, ma evocando termini relativi alla sfera amorosa (amore, passione, cuore, nostalgia). Un esempio efficace è l’iniziativa di tutela dei paesaggi minori promossa dal Fondo per l’Ambiente Italiano (FAI), definendoli “luoghi del cuore” e invitando le persone “innamorate” di un luogo a segnalarlo, compilando una scheda apposita da inviare al FAI. Ognuno di noi ha uno o più luoghi del cuore, peculiari geografie private in cui memoria e nostalgia hanno lasciato sedimenti affettivi di varia intensità, la cui alterazione o cancellazione può determinare dolore profondo. In genere la geografia degli affetti coincide con gli scenari che fanno da sfondo alle vicende biografiche più liete e in questo caso la nostalgia può attivare un percorso mentale per sopportare il rischio costante di oblio, stimolando la ricerca di memorie con cui fronteggiare, per esempio, la dispersione delle pregiate toponomastiche tramandate dagli anziani.
Ogni luogo è custode di un lungo succedersi di microstorie. Generazione dopo generazione si avvicendano oscuri creatori di paesaggio, una enorme comunità di esseri umani vissuti e svaniti nel nulla, la cui voce emerge talvolta dai testi letterari, dalle fonti d’archivio, dalla ricerca folklorica. La consapevolezza dell’abitare si nutre di conoscenza del senso dei luoghi a cui si sente di appartenere; e ciò al di là dell’appropriazione fisica dello spazio, diventando appartenenza culturale, condivisione dei simboli e dei segni di un territorio. Il bisogno umano di avere radici in qualche luogo è il bisogno di avere un posto stabile e sicuro da cui partire per orientarci e tessere relazioni con il resto del mondo. Da qui deriva lo stretto legame tra “microstorie” e “microcosmi”, in cui si sviluppa l’amore (talvolta anche l’odio) per i limitati orizzonti dell’agire quotidiano: la casa, la strada, la piazza, la chiesa, l’osteria. Sono questi gli elementi attorno ai quali si concreta la formazione sociale della territorialità tradizionale e che in gran parte dei paesaggi storici della vecchia Europa hanno subito rapide trasformazioni economiche e sociali tanto che larghi strati di popolazione non riescono più a ritrovare i loro luoghi e a riconoscersi in essi.
Forse all’interno delle prescrizioni della Convenzione Europea del Paesaggio sarà possibile avviare una ricucitura sentimentale con i territori della quotidianità, affidandosi anche a quanto previsto dalle nuove Politiche Agrarie Comunitarie, così attente nel promuovere le agronomie tradizionali, le filiere alimentari corte, recuperando i luoghi del gusto e della convivialità? Nell’attesa del concretarsi di queste speranze elaborate a livello istituzionale, non è difficile imbattersi girando per l’Europa in efficaci azioni locali da parte di modeste associazioni di paese, con il contributo competente e appassionato di qualche erudito dilettante, che cercano di difendere e recuperare il senso di appartenenza ai luoghi

Geografia e percezione dei rischi ambientali

L’interesse del rapporto tra degrado ambientale e stati depressivi inizia a manifestarsi a seguito della progressiva affermazione tra i geografi accademici angloamericani del behavioural approach, ricondotto all’interno del metodo della Geografia del “Comportamento e della Percezione” sviluppato anch’esso, nella sua forma più strutturata, durante gli anni ’60 nel contesto nordamericano, in connessione con i primi studi sull’impatto psicologico dei rischi ambientali (Gold, 1980). I temi di ricerca sono infatti le reazioni emotive delle comunità che vivono in territori degradati e minacciati sia da rischi naturali che di origine antropica. A questo approccio contribuisce con efficacia la metodologia della  psicologia ambientale di impronta cognitivista, dando origine ad un periodo di uno o due decenni di significativa produzione scientifica e ricerca empirica. Sono dunque evidenti i legami con i già menzionati obiettivi della geografia umanistica, cosi attenta alle famose terrae incognitae identificate da Wright nel 1947, cioè la nuova frontiera dell’esplorazione scientifica in geografia costituita dalle rappresentazioni mentali della realtà, i cosiddetti “mondi interni” (Wright, 1947).
E’ in questo contesto scientifico che si sviluppano gli studi dedicati alla percezione dei rischi ambientali. Va ricordato a questo riguardo il lavoro del  geografo Gilbert White che attivò negli anni ’50, presso il Dipartimento di Geografia dell’Università di Chicago, un gruppo di ricerca dedicato allo studio dei rischi naturali, integrando il consueto interesse per l’oggettività geo-fisica con l’analisi delle reazioni umane di adattamento alle situazioni di rischio territoriale, utilizzando inoltre l’apporto di discipline quali la sociologia e la psicologia (Burton, Kates, White, 1978). Negli anni ’70, con il crescere della sensibilità ambientalista, a queste ricerche si affiancano i primi lavori sulla “percezione” dell’inquinamento, dell’impatto ambientale dell’azione antropica e, più in generale, dei grandi temi ecologici, ampliando così l’interesse per questioni legate alla complessità del rapporto uomo-ambiente.
Il percorso di ricerca congiunto tra scienza del territorio e scienza della mente ha esercitato un indubbio fascino, definendo così un proficuo atteggiamento interdisciplinare in grado di cogliere la sintesi tra dimensione oggettiva e soggettiva, a cui fa capo per la geografia il contributo di urbanistica, geomorfologia, sociologia, scienze naturali, mentre al percorso psicologico si collegano biologia, neuroscienze, scienze sociali, antropologia. Bisogna rilevare che i primi esiti concreti di questa tanto elogiata scoperta delle correlazioni possibili tra “mente” e “territorio” (Bonnes, Secchiaroli, 1992) condussero a enfatizzare l’approccio quantitativo, coniugando le istanze sperimentali della psicologia con quelle quantitative della nuova geografia (Capel, 1987, pp. 212-220). L’intuizione innovativa delle geografie mentali si sottopone alla puntigliosa griglia epistemologica della misurabilità, scelta troppo rigida che palesa una sorta di timore di essere svalutati di fronte alla scientificità “hard” a cui poteva invece appoggiarsi non solo la metodologia psicometrica dei laboratori della psicologia sperimentale, ma anche il tradizionale rigore dei colleghi geomorfologi e geografi fisici. Fino alla metà degli anni ’70 sembra prevalere tra i geografi che si occupano di percezione (specialmente tra quelli di formazione umanistica e letteraria) un’ansia di legittimazione “scientifica”, adottando in modo passivo metodi di notevole rigidità che nell’inseguire il mito dell’identità professionale trascurano invece una più attenta analisi dei significati profondi che sfuggono all’approccio quantitativo  (Bianchi, 1987).
All’interno di questa ricerca di scientificità si perde dunque di vista la dimensione soggettiva e ciò può sembrare un paradosso rispetto agli iniziali obiettivi della geografia della percezione. Il rigore delle analisi di laboratorio da parte della psicologia cognitiva allontana dalla comprensione dei significati culturali, affettivi e simbolici che interagiscono nei “vissuti” territoriali, così importanti nella geografia umanistica. Considerare come un gruppo umano reagisce ai rischi e ai disagi ambientali costituisce una proficua occasione per utilizzare un approccio geografico, quello umanistico appunto, su cui convergono riflessioni fenomenologiche e esistenzialiste, ravvivando l’interesse intorno ai temi delle “epistemologie deboli”, proprie delle scienze del soggetto, contrapposte alle “epistemologie forti” delle scienze della natura. Ecco che occuparsi delle voci dei vinti, dei deboli che subiscono traumi ambientali, trova autorevole sostegno nelle coeve filosofie del soggetto e della soggettività, interessate al significato e alla costruzione di senso rispetto al “Mondo”: la geografia ad esse ispirate diviene quindi una geografia interessata ad indagare le forme dell’”Esserci-nel-Mondo” e rispetto alle astrazioni di certa speculazione filosofica, la ricerca geografica è interessata ad un Mondo molto più reale e concreto (Entrikin, 1976).
Il rapporto tra qualità della vita e degrado del paesaggio, intersecandosi con una imprevista quantità di disagi e angosce esistenziali, non può che emergere dallo studio dei “luoghi interiorizzati” che sono prodotti soggettivi elaborati dagli individui che vivono in una specifica base territoriale, la quale viene caricata di significati che possono variare a seconda degli obiettivi esistenziali. Chi sfrutta una cava di ghiaia in un pregiato sito fluviale e possiede grandi e rumorose ruspe e numerosi camion che intasano il traffico locale certamente genera disagio non solo tra i vicini residenti, ma anche tra gli amanti delle gite al fiume, per cui sorge un conflitto tra due diverse modalità di valutare la medesima risorsa ambientale. Ne consegue che il processo di territorializzazione, che conduce cioè alla trasformazione di uno Spazio neutrale in uno Spazio vissuto, molto spesso non è condiviso, ma altamente conflittuale. Non è certo un caso che i tribunali di tutto il mondo siano intasati da milioni di cause legali per risolvere le liti condominiali o tra vicini di giardino; e già a questo livello microgeografico si producono ben noti stati depressivi che la battaglia giudiziale certamente inasprisce fino al punto estremo, tutt’altro che raro, della violenza anche mortale.
Se la coesistenza nei grandi e anonimi condomini dei quartieri popolari delle città mediterranee o tra il vasto diffondersi della uniforme edilizia a schiera delle periferie anglosassoni è certamente favorevole al sorgere di patologie depressive, bisogna evidenziare che anche l’apparente serenità dei microcosmi rurali possono generare paesaggi interiori tutt’altro che idilliaci. Non è infatti una novità che lontano dai conflitti e dai rischi ambientali urbani si possa verificare una diversa, ma altrettanto implacabile dialettica tra bene e male. Le visioni falsamente arcadiche di una campagna post produttiva da destinare al gioioso riposo dei cittadini benestanti non riescono infatti a nascondere la presenza di pesanti rischi ambientali (uso di pesticidi, discariche di rifiuti, cave di pietra, edilizia invasiva per la speculazione immobiliare, nuove strade, inquinamento delle acque). Anche la campagna toscana, forse la più affascinante e la più sognata, a livello globale, tra le geografie rurali postmoderne, è interessata da una crescente diffusione di comitati di cittadini fortemente preoccupati per il degrado ecologico e fisionomico di numerosi ambiti paesaggistici (Toscani Comitati).

Paesaggi feriti e depressione

Si è già evidenziato nelle pagine precedenti come alla base della sensibilità ambientalista ci siano non solo articolate motivazioni culturali, ma anche specifici atteggiamenti di valutazione cognitiva ed emotiva dei contesti territoriali, a cui corrispondono comportamenti ben noti agli studiosi di psicologia ambientale, anche se manca una letteratura che puntualizzi il rapporto tra perdita della “bellezza del paesaggio” e disagio. Senza addentrarsi nelle complesse procedure dell’anamnesi psicologica, un buon indicatore empirico del diffondersi di un senso di ansia e preoccupazione per il degrado visuale dei paesaggi è l’incalzante susseguirsi nei mezzi di informazione popolare (televisione e giornali) non solo di resoconti e cronache, ma anche di più approfondite riflessioni che considerano la questione. Molto spesso le narrazioni dei singoli giornalisti accentuano e drammatizzano i fatti oggettivi, con l’evidente obiettivo di scuotere le coscienze di vasti settori di cittadini poco attenti al paesaggio inteso come bene comune. Si tratta quindi di messaggi che possono attivare “distorsioni cognitive negative” (Beck, 1991), cioè processi mentali che alterano la normalità cognitiva innescando un susseguirsi di pensieri negativi “automatici” soprattutto in soggetti già in allarme per il destino non solo del proprio paesaggio, ma di contesti ben più ampi e al di fuori della quotidianità (i paesaggi nazionali, quelli visitati durante un viaggio etc.).
Incrociando la mia personale esperienza di disagio di fronte alla perdita di bellezza del paesaggio veneto (Vallerani, Varotto, 2005) con la diagnostica elaborata da Aaron Beck, posso confermare che vi è una stretta connessione tra emozioni negative suscitate dagli oltraggi ambientali e conseguente propensione ai pensieri negativi che uniformano in tal senso tutta la realtà, escludendo quasi del tutto ogni informazione positiva. Lo sguardo pessimista diviene dominante, con il prevalere di ciò che Beck definisce “blocco cognitivo”, per cui non si riesce a cogliere alcun spunto rasserenante. Va però precisato che la presenza in Veneto di oltre 250 comitati emergenziali (Zamparutti, 2000) e la costante verifica sul campo di oggettive e gravi situazioni di degrado, sia approvate dai politici locali che in contrasto con le leggi di tutela, producono le medesime sensazioni in migliaia di altre persone che non accettano più passivamente la perdita di qualità del paesaggio. La diminuzione di fiducia nelle istituzioni, e in particolare nel periodo 2001-2005 quando la destra italiana ha depenalizzato i reati ambientali e ha perdonato gli abusi edilizi (Benedetti, 2006), accresce lo stato d’ansia e produce visioni catastrofiste che se non degenerano in palesi patologie depressive, determinano comunque uno stato di infelicità e sfiducia collettiva.
Posso affermare che l’ansia catastrofista si è rivelata per me una inconscia strategia di difesa nei confronti di una situazione peggiore che potrebbe accadere, quasi una preparazione a condizioni di maggiore gravità. Questa specie di vaccino mentale mi è servito nel proseguimento dello studio delle criticità ambientali senza ulteriori turbamenti, garantendomi inoltre un certo distacco nella raccolta delle drammatiche testimonianze dei protagonisti dei comitati per la difesa del paesaggio e dell’integrità ecologica del territorio. Soffrire per i danni subiti dal paesaggio determina uno stato di angoscia che è però facilmente condivisibile, per cui i disturbi ansiosi possono essere scaricati nell’azione civica che reagisce alle minacce al bene comune. Resta comunque notevole l’ambiguità del disturbo depressivo in questa sua oscillazione tra la sfera soggettiva e il gruppo di impegno ambientalista, anche perché, sempre secondo Beck, la condivisione della negatività sta alla base di una dimensione più “culturale” del pessimismo, il cui consolidarsi (anche attraverso comunicati stampa, interviste, articoli di cronaca) potrebbe persino essere visto come difesa contro la depressione e l’ansia, scaricando all’esterno la negatività che potrebbe danneggiare il singolo soggetto (Beck, 1991).
In questa analisi non va tralasciata la possibilità che esista una componente genetica nei disturbi depressivi e in effetti da studi su gemelli omozigoti sono emersi i ruoli dei geni nella predisposizione alle malattie depressive. Nei casi più gravi l’ereditarietà di questa psicopatologia conta per almeno il 50/60%, mentre per le situazioni meno preoccupanti non va oltre il 10% (James, 1997, p.31). In tal modo non è possibile escludere il ruolo dei condizionamenti ambientali, specie quando si ha la perdita di controllo degli eventi esterni che possono compromettere il funzionamento e la qualità dello spazio vissuto e quindi le rassicuranti sensazioni che governano l’attaccamento ai luoghi. L’analisi psicologica (Pezzullo, 2005) ha proposto diversi modelli di comprensione del rapporto emotivo con l’ambiente, come ad esempio quello bifattoriale basato sui termini “spiacevolezza-piacevolezza” (altrimenti definibile come repulsione e pericolo vs. attrazione e sicurezza) e di “attivazione-deattivazione” (situazioni nuove e complesse vs. contesti ordinari e privi di stimoli). Entrambe le opposizioni risentono dell’influsso etologico, per cui il degrado dei paesaggi è una minaccia al prototipo del “buon rifugio”, ancora in grado di condizionare l’istinto di sopravvivenza e quindi la valutazione soggettivi degli ambienti quotidiani (Baroni, 1998).

La perdita traumatica del senso del luogo

L’attaccamento ai luoghi, è bene ripeterlo, viene profondamente compromesso dalla rapidità delle trasformazioni economiche e sociali che se da un lato portano innegabili vantaggi al reddito pro capite, dall’altro segnano rotture spesso traumatiche con i precedenti stili di vita. Questo è quanto avviene in Italia a partire dagli anni ’60 e ’70, dove la tardiva adesione alla rivoluzione industriale ha reso ancora più evidente il contrasto tra la caotica urbanizzazione che spreca risorse ambientali e l’elevato pregio storico-culturale dei paesaggi ereditati (Erbani, 2003). Più che di nuovi tipi di paesaggi è opportuno rilevare un consistente processo di ibridazione dovuto alla distribuzione di specifici elementi funzionali e di nuovi assetti strutturali che si inseriscono in modo ubiquitario e indifferente tra le maglie di un pregiato tessuto geografico formatosi a seguito di  secolari processi evolutivi. E’ questo evidente senso di casualità, di rottura netta con le preesistenti logiche del contesto, di degrado sia bioterritoriale che formale, di perdita di obiettivi condivisi, di preminenza delle finalità incrementali di pochi a danno di una maggioranza silenziosa, che acuisce un crescente disappunto e preoccupazione per le sorti della specificità e qualità degli scenari entro cui si collocano le nostre vicende quotidiane. Ma il disappunto è dovuto anche all’incapacità di leggere le nuove geografie, subordinate alla presunta efficienza di una modernità verso cui si è sempre più diffidenti.
Quando i luoghi subiscono lesioni, è la comunità che vede alterato il rapporto vitale che consente il riconoscimento identitario, anche se il disagio psicologico viene avvertito dai componenti più sensibili del gruppo. L’angoscia si rafforza in chi assiste impotente al passaggio dal Cosmos dell’identità al Caos del pensiero unico prodotto dall’economia globale, che rende inutili e superati i legami tra comunità e ambiente, e di conseguenza le referenze paesaggistiche tradizionali si riducono a semplici e indifferenziati supporti euclidei catturati dal mercato immobiliare, da destinare alle funzioni più redditizie. Spesso accade che le fisionomie paesaggistiche più attraenti subiscono le lusinghe del marketing territoriale, per cui le forze del mercato faranno il possibile per espellere gli abitanti autoctoni, sconvolgendo l’ordine delle valutazioni immobiliari governato dalla domanda globale (emblematico il caso del centro storico di Venezia).
E’ evidente che gli esseri umani hanno una elevata capacità di adattamento, per cui si sopravvive anche se nelle vicinanze hanno localizzato un impianto produttivo rumoroso, anche se le nostre abitudini devono cambiare per il traffico che aumenta dopo che il solito orizzonte di alberi e campi è stato sostituito dal centro commerciale o dal nuovo quartiere per gli operai rumeni e marocchini, anche se non si può più nuotare sul fiume e altro ancora. Come si è già detto in questo saggio, è pericoloso e ingenuo credere nella perennità dei legami affettivi con i luoghi della propria biografia. Tutto cambia, è vero. Però è troppo facile da parte dei poteri politici, dei pianificatori, degli investitori minimizzare gli effetti collaterali di questa inarrestabile mitologia dello sviluppo, sorridere con malcelato disprezzo nei confronti di chi implora dialogo e ascolto quando si tratta di governare in modo condiviso il territorio, come se la qualità visuale, cioè la bellezza, fosse un trascurabile accessorio all’esistenza, da sacrificare all’immediato tornaconto economico dei soliti pochi. L’imposizione traumatica di nuove geografie deve fare i conti con le esigenze degli attori deboli e sensibili ai valori non monetizzabili dell’esistenza, in modo da contrastare la perdita di luoghi interiorizzati con il patrimonio insostituibile di emozioni radicate e memorie vissute. Perdere il “Luogo” significa dunque perdere la possibilità di pensare il proprio contesto, e soprattutto di pensarsi nel proprio contesto; significa subire un attacco alle proprie capacità di significazione, uno attacco ai propri ordini di riferimento più basilari e banali, di cui siamo quasi inconsapevoli nelle situazioni di “normalità”. Questo “trauma geografico” si traduce in un “trauma psicologico” in quanto lesione[1] della struttura territoriale che sostiene il sistema di significazione sociale ed individuale, danno irreparabile alla dimensione contestuale di contenimento e sviluppo dei propri spazi sociali e spazi di vita (Pezzullo, 2005). Infine, molto più prosaicamente, il degrado del paesaggio può generare anche una “ferita” economica, cioè danni facilmente monetizzabili a seguito del deprezzamento del valore immobiliare della casa a cui si avvicina l’insediamento produttivo rischioso, o la strada di grande traffico, o la grande urbanizzazione residenziale che cancella lo scenario tradizionale, per cui i cittadini depressi che vogliono andare via non riescono a vendere la propria casa ad un prezzo adeguato per acquistarne un’altra in un luogo meno “a rischio”.
Se valutiamo le ricadute economiche di questi “traumi” geo-psicologici, ci viene incontro un innovativo percorso culturale elaborato dalle scienze economiche. Si tratta di una nuova contabilità ambientale che cerca di aggiornare la consueta e per molti aspetti inadeguata valutazione econometrica tradizionale con l’introduzione del concetto di “qualità della vita”. E’ infatti ormai assodato che il principale degli indicatori economici, il PIL (Prodotto Interno Lordo), nel descrivere il benessere di una collettività sia tanto meno significativo quanto più sia mediamente ricca la comunità osservata, vale a dire quanto più siano soddisfatti i bisogni primari (Hamilton, 2003). Emergono quindi insopprimibili “limiti sociali dello sviluppo”, per cui l’incremento di quantità di beni offerti non si riflette più in una parallela crescita di soddisfazione. (Hirschmann, 2003). Non a caso negli ultimi anni gli economisti più consapevoli e critici nei confronti del “pensiero unico” hanno cominciato a occuparsi di questioni tradizionalmente lasciate nell’implicito del discorso come quello della felicità, soddisfazione residenziale, qualità delle relazioni sociali, bellezza del paesaggio. (Dasgupta, 2004; Georgescu-Roegen 2003), mettendo in guardia i responsabili politici e i settori più attenti dell’imprenditoria circa il declino delle società opulente, sottoposte al nodo scorsoio della saturazione territoriale e dei conseguenti conflitti tra manutenzione della qualità ambientale e la non facile coesistenza tra funzioni produttive, logistiche e residenziali. (Anastasia, 2005). La depressione da trauma paesaggistico aumenta quindi la vulnerabilità psicologica dell’individuo e amplifica la percezione dei fattori di rischio. Anche nei casi in cui questo processo non conduce alla strutturazione di forme di disagio patologico, arreca comunque un pesante contributo di ansia e difficoltà ai consueti problemi del vivere quotidiano. Quando, infine, la frantumazione della bellezza e dell’armonia dei paesaggi della vita di ogni giorno colpisce una comunità già sottoposta alla perdita della salute ecologica del proprio territorio, ci si trova di fronte una “bad practice” geografica di ampia portata.
Non resta che affidarsi a un rigoroso ritorno all’impegno etico, richiamandoci al dovere della responsabilità (Jonas, 2002), che sia in grado di trasformare le facili lusinghe dei vantaggi immediati in più lungimiranti strategie della previsione e della condivisione dei doveri comuni. Depressione e pessimismo ambientali si possono guarire con il recupero della dimensione della “cura” in senso simmeliano, ricucendo cioè un più diretto rapporto con le articolate fenomenologie ambientali che compongono lo spazio vissuto e riconoscendo quindi la stretta dipendenza dell’individuo con gli altri del gruppo e con il territorio da cui ricava un senso per la sua esistenza (Simmel, 1997). E’ la ricerca insomma di geografie meno egoistiche e più solidali, dove il senso di una continuità civile e di ideali sia in grado di produrre socievolezza territoriale e profonda identificazione con una evoluzione del paesaggio rispettosa della qualità storica e ecologica.




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[1] Trauma deriva appunto dal greco classico “ferita

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